martedì 23 giugno 2009

gli spari sopra

Qualche riflessione e tante domande di EDUARDO GALEANO, dal quotidiano "Il manifesto" del 7 maggio 2009.
Chi è terrorista? Colui che lancia le scarpe o colui che le riceve? Perché non sono in carcere gli autori delle stragi più feroci? Queste e tante altre domande sulla giustizia ingiusta nel mondo che funziona alla rovescia. È giusta la giustizia? È salda sulle sue gambe la giustizia del mondo alla rovescia? Il lanciascarpe dell'Iraq, colui che tirò le scarpe contro Bush, è stato condannato a tre anni di carcere. Non meritava invece una onorificenza? Chi è il terrorista? Colui che lancia le scarpe o colui che le riceve? Non è forse colpevole di terrorismo il serial killer che, mentendo, inventò la guerra dell'Iraq, assassinò un mucchio di gente, legalizzò la tortura e ordinò di utilizzarla? Secondo la rivista "Foreign Policy", la Somalia è il posto più pericoloso di tutti. Ma chi sono i pirati? I morti di fame che assaltano le navi, o gli speculatori di Wall Street, che da anni assaltano il mondo e adesso ricevono ricompense multimilionarie per le loro fatiche?
Perché mai sono intoccabili le cinque potenze che hanno il diritto di veto alle Nazioni Unite? Quel diritto ha forse un'origine divina? Vegliano forse sulla pace coloro che fanno gli affari della guerra? È forse giusto che la pace mondiale dipenda dalle cinque potenze che sono le principali produttrici di armi?
I padroni del mondo condannano la violenza solo quando la esercitano altri. E questo monopolio della violenza si traduce in un fatto inspiegabile per gli extraterrestri, e anche insopportabile per noi terrestri che, contro ogni certezza, vogliamo ancora sopravvivere: noi uomini siamo gli unici animali specializzati nello sterminio reciproco, e abbiamo sviluppato una tecnologia della distruzione che, en passant, sta distruggendo il pianeta e tutti i suoi abitanti.
I dittatori della paura. È la paura che fabbrica i nemici che giustificano lo spreco militare e poliziesco. E già che ci siamo con la pena di morte, perché mai non condanniamo a morte la paura? Non sarebbe forse sano farla finita con questa dittatura universale degli spaventatori professionali?
Perché non si legalizza la droga? Non è forse, come l'aborto, un tema di salute pubblica? E il paese con più drogati che razza di autorità morale possiede per condannare coloro che riforniscono la sua domanda? E perché i grandi mezzi di comunicazione, così consacrati alla guerra contro il flagello della droga, non dicono mai che proviene dall'Afghanistan quasi tutta l'eroina che si consuma al mondo? Chi governa in Afghanistan? Non è forse quello un paese militarmente occupato dal messianico paese che si attribuisce la missione di salvarci tutti?Perche' mai non si legalizzano le droghe una volta per tutte? Non sarà forse perché forniscono il pretesto migliore per le invasioni militari, oltre a fornire i guadagni più succulenti alle grandi banche che di notte lavorano come lavanderie? Adesso il mondo è triste perché si vendono meno auto. Una delle conseguenze della crisi mondiale è la caduta della prospera industria dell'automobile. Se avessimo qualche briciola di buon senso, e un pochettino di senso della giustizia, non dovremmo forse celebrare quella buona notizia? La diminuzione delle automobili non è forse una buona notizia, dal punto di vista della natura, che sarà un po' meno avvelenata, e da quello dei pedoni che moriranno un pochino meno?
A volte finiscono male le storie della Storia; ma lei, la Storia, non finisce. Quando dice addio, dice arrivederci.

lunedì 22 giugno 2009

cassa amica

Vi ricordate la mafia a Catania? Quella dei cavalieri dell’apocalisse, dei santapaola, dei cursoti, degli appalti della grande edilizia, degli intrecci mattone-cosche-voti-potere? Bene, qualcosa è cambiato nello scenario della nostra città. Non perché lo dicano i rapporti della magistratura, ma perché basta solo guardare intorno a noi e osservare ciò che sorge e capire che l’asse del potere economico da anni punta ad altro. Catania è una città che con l’hinterland arriva a sfiorare quota 900.000 abitanti, paesi dormitorio inclusi, e ha circa 7 centri commerciali di proporzioni enormi oltre ad aree commerciali immense quali quella di Misterbianco. Si dirà che la vocazione della città da sempre è stata quella commerciale, dei negozi, della vendita. Poi però si guarda al PIL della provincia, alla ricchezza delle famiglie, alla disoccupazione, ai soldi reali che possono essere spesi e ci si rende conto che questa è una città in crisi economica profonda da tantissimi anni. E allora come si spiegano le continue e persistenti aperture dei centri commerciali, dei centinaia di negozi dentro questi capannoni? Come si spiegano gli enormi parcheggi che non riescono a riempirsi nemmeno con la tredicesima appena intascata? Questo è la filosofia degli affari mafiosi di oggi. La mafia moderna si alimenta economicamente, oltre ai soliti canali della droga, del racket e dei sempre minori appalti (promessa del ponte sullo stretto escluso…), attraverso il riciclaggio, gli investimenti dell’alta finanza ma soprattutto le attività commerciali, turistiche e della ristorazione. Qualche sortita anche nella “munnizza”, ancora in maniera dilettantistica rispetto alla camorra, anche se ci sarà tempo anche in questo settore per perfezionarsi.
Aprire un centro commerciale è un affare per tutti. Per la politica che si trova a gestire un potenziale pacchetto di voti fatto di promesse di posti di lavoro, valorizzazione dell’area interessata, infrastrutture e spesso mazzette. Per gli abitanti del territorio, soprattutto se di aree rurali, che si vedono piovere possibilità di sviluppo economico (ma spesso solo iniziale e a breve termine). E soprattutto per la mafia che investe denaro illecito per ripulirlo con attività in giacca e cravatta.
Altro esempio sotto i nostri occhi? I grandi autosaloni d’usato e non, plurimarche, che hanno una gamma infinita di vetture, spesso con prezzi troppo convenienti, nati anche questi come funghi e diffusi a macchia d’olio, in particolar modo in provincia. Forse quei grandi supermercati a cielo aperto contengono più auto di quante ne circolano in strada. Si va dalle Smart alle Ferrari e molte volte a proporti le vendite sono persone che non sembrano conoscere il mercato o i modelli che espongono. Eppure il mercato dell’auto, soprattutto quello dell’usato, è totalmente stagnante. E persino le finanziarie che vengono proposte per l’acquisto non sempre sono le tradizionali del credito al consumo. Molte volte per venire incontro alle esigenze del cliente che ha problemi per l’accesso al credito, vengono proposte improbabili finanziarie, con tassi vicino all’usura, ma sempre disponibili a elargire denaro liquido, persino a protestati e cattivi pagatori. Anche qui qualcosa non torna, proprio in un periodo di crisi finanziaria mondiale. Mi sa che la mafia è l’unico motore attivo di questa crisi globale. Anzi sarebbe più corretto parlare di mafie, ma meglio non allargare troppo i rivoli del discorso per non perdere il filo di partenza.
Questi due macro esempi, sotto gli occhi di tutti, rappresentano il pericolo crescente di un nuovo intreccio criminale-politico, di una nuova ondata di denaro che compra potere, di potere che si serve del denaro per perpetuare se stesso.
Medesimo ragionamento lo si può estendere nelle attività dell’alta ristorazione e delle imprese turistiche quali i villaggi o i resort di lusso. Lì però la magistratura da un po’ di tempo ha iniziato a muoversi, affinando le tecniche investigative e d’analisi dei flussi economico-finanziari.
La politica sembra non accorgersi di questi pericoli, depotenzia gli strumenti d’indagine quali le intercettazioni che in questi ambiti sono l’unico strumento reale per portare alla luce questi intrecci. Se due uomini d’affari si mettono d’accordo illecitamente non lasciano una tracciabilità scritta, ma lo fanno dialogando. Così come la corruzione politica non avviene firmando un contratto ma parlandosi, spesso in codice. Ma in Italia oggi è prioritario evitare di far giungere i gossip telefonici dei potenti, sacrificando anche le notizie di reato.
Catania si sta trasformando in un immenso ipermercato dove persino le famiglie vengono portate in gita domenicale coi pullman, sostituendo la gita a Tindari con quella a Etnapolis. Si tenta persino di vuotare i portafogli già in rosso dei pensionati o di far crescere i nostri figli dentro queste scatole al neon, senza aria aperta e con parchi giochi a pagamento. Dovremmo invece essere consapevoli che ogni centesimo speso in maniera diretta o indiretta va a rimpinguare le casse delle famiglie mafiose che alimentano il loro potere e consentono alla peggiore classe politica nostrana di mantenere il potere assoluto e illimitato.
Tutti stanno a guardare tra la consueta indifferenza e indolenza. Si ha quasi paura ad intervenire per rompere questo intreccio perverso. Paura che questi continui flussi di denaro si esauriscano prendendo altre vie. Paura che questa droga economica possa far ritornare la città per strada, tra un negozio in via Umberto e la salumeria di fiducia, magari respirando all’aria aperta, col naso all’insù, per guardare oltre l’orizzonte di questa nuova prigionia.

sabato 20 giugno 2009

la scuolite

Piccole riflessioni su dialoghi di fine anno scolastico.
In Italia tutti sentono il bisogno di intervenire e commentare, quasi sempre con toni negativi, il lavoro a scuola e, più in generale, l’intero sistema scolastico. Chi parla dei ragazzi sempre più ignoranti, maleducati, di bullismo (spesso confondendo il bullismo con la delinquenza comune dei minori…ma in Italia la semplificazione e la banalizzazione non sono categorie negative nella pratica quotidiana). Tutta colpa della scuola. Parlano delle lunghissime vacanze dei docenti, della loro presunta impreparazione e talvolta anche delle psicopatologie di cui hanno sempre racconti nuovi e avvincenti. Un po’ come sul calcio, ogni italiano saprebbe come risolvere i mali atavici della scuola, saprebbe come reclutare i docenti e far diventare scienziati i nostri ragazzi. Tutta questa sapienza senza mai essere entrati in una classe, se non per prendere i loro figli o nei ricordi adolescenziali della loro scuola, ricordi che nulla o poco hanno a che vedere con la scuola e soprattutto con la società di oggi.
L’interesse per la scuola dovrebbe essere un elemento importante per la società, perché per i cittadini avere a cuore il miglioramento dell’intero sistema d’istruzione garantirebbe un’attenzione politica vera e efficace sulla scuola. E invece accade proprio il contrario. La scuola viene utilizzata come palestra demagogica proprio perché il livello della discussione generale è da gossip, da frasi fatte, da “ai miei tempi”, e via dicendo. E così il deleterio chiacchiericcio che, per esempio, si è sentito per anni da dilettanti dell’istruzione sul maestro unico ha aperto la strada alla controriforma sulla scuola primaria, di fatto vanificando un sistema d’insegnamento che garantiva risultati certi e che aveva consentito lo sviluppo di una didattica all’avanguardia. Nessun esperto di didattica, a nessun livello, ha mai sostenuto che il maestro unico, pardon “prevalente”, sia migliore dello sperimentato modulo. Migliorano solo le uscite ministeriali. Quindi tagli venduti per riforma. Ma dove erano tutti questi grandi intenditori del sistema scolastico? Nessuno che davvero si sia interessato, nessuno che abbia bloccato questa riforma che peggiorerà il livello di istruzione dei nostri ragazzi. E così per tutte le paventate o proposte di legge che quotidianamente vengono sfornate dal ministro che ama parlare ai gggiovani su Youtube.
Nel frattempo, nella scuola dell’infanzia, tovaglioli, acqua e materiale didattico sono totalmente a carico delle famiglie. E come si spendono le tasse dei contribuenti? Acquistando lavagne multimediali ipertecnologiche, da mettere in classi con banchi che non vengono cambiati da decenni, sedie diseguali e spugne portate da casa. Un po’ come dissetare gli assetati con lo champagne: alla fine resterà il mal di testa e ancora più sete di prima.
Potrei continuare con il finanziamento dei progetti più disparati, quasi completamente inutili, mentre le scuole restano senza fondi per attività efficaci quali sportelli didattici o corsi di recupero. O con l’obbligatorietà delle visite fiscali a carico dei bilanci asfittici delle scuole per controllare quei cialtroni dei docenti e tutti a plaudire, populisticamente.
La scuola è una cosa troppo seria per essere riformata nelle chiacchiere da ombrellone, tra le escort presidenziali e una lite da calciomercato. Lasciamo magari che Apicella ne scriva la musica, le parole ormai le conosciamo, sempre con lo stesso ritornello.

domenica 14 giugno 2009

felicittà

L'odore di un processo, quattro toppe di bitume sulle buche, due spiagge libere aperte per questa tiepida estate e la questione morale in questa città sembra essersi esaurita. Quel poco d'indignazione indotta dai due efficaci reportage di Reality e Report sembra essere svanita nel torpore di giorni senza sapore. Sommersa dal traffico, dai debiti, dai manifesti elettorali, da amministratori incapaci che hanno preso il posto di amministratori inquisiti e rinviati a giudizio, Catania è una città senza identità, senza progetto culturale, senza orgoglio sociale, senza colori. La città delle triple file in sosta, che fa dell'illegalità, della spittizza il modus vivendi, ha smarrito la via d'uscita da troppo tempo. Ma sonnecchia davanti al seltz al limone e preferisce parlare tutto il giorno di calcio o di briscola pazza. E quando si va a votare è come se si azzerasse tutto, come se non ci sia rispondenza diretta fra coloro che hanno saccheggiato e umiliato questa città e i soliti candidati che perennemente fanno il pieno di voti, non per bravura politica ma per rendita di posizione decennale, spesso tramandata da padre in figlio (Berretta, Trantino e Drago per far comprendere che è una malattia trasversale) o suocero e genero. Dai feudatari, ai viceré ai podestà e ai politici repubblicani non sembra ai piedi dell'Etna essere cambiato il modo di gestire il potere politico ed economico, con arroganza e protervia. Con qualche piccola parentesi di una Catania felix di brancatiana memoria, forse più vagheggiata che realmente esistente.
Dobbiamo smettere di lasciar scorrere questo fiume carsico di indifferenza e indolenza, pretendendo di essere trattati da cittadini e non da sudditi. Talvolta occorrerà mettere una croce nello spazio giusto, altre volte smettere di acquistare e leggere le non notizie del non quotidiano cittadino e sostenere le poche e combattive voci di libera informazione, altre ancora scendere in piazza e far sentire la propria voce. E avere memoria, come un elefante anzi come un liotru. Piccoli e semplici gesti, piccoli frammenti di rivoluzione per riconquistare la dignità perduta. Oltre i rattoppi sulle buche.

venerdì 12 giugno 2009

camping Italia

La grandezza di un paese si misura nella capacità che si ha di saper impostare una politica estera di qualità che possa guardare al futuro, senza dimenticare il passato e le storie degli uomini. Pubblico di seguito il commento di Marco Travaglio alla visita del dittatore libico, poche parole dietro la cartolina del nostro paese.
Un solo paese, nel mondo libero, poteva riservare gli onori di Stato a una tetra macchietta come il colonnello Gheddafi: il nostro. Un solo premier, nel mondo libero (anzi, semilibero), poteva non solo accogliere nelle più alte sedi istituzionali, ma addirittura baciare con trasporto un soggetto che fino a qualche anno fa foraggiava gruppi terroristici, cacciava ebrei, faceva abbattere aerei di linea come piccioni (Lockerbie, 270 morti), approntava armi di distruzione di massa (vere), bombardava l’Italia senza neppure centrarla: il nostro. Del resto, dal punto di vista coreografico, c’è un solo un leader al mondo che rivaleggi con Muammar Al Tappon quanto a ridicolaggine, tintura, fard, ombretto, per non parlare del corteo di «amazzoni», versione tripolina delle veline di Villa Certosa. Anche la concezione che i due hanno della democrazia è piuttosto simile, anche se milioni di gonzi italo-padani si erano illusi che Al Tapone fosse almeno uno sfegatato filoamericano, punta di diamante dell’«alleanza contro il terrorismo». Vederlo baciare chi sostiene che «bisogna capire le ragioni del terrorismo» e paragona gli Usa a Bin Laden e sentire Schifani definirlo «uomo di Stato» potrebbe creare qualche spaesamento in un elettorato minimamente avveduto. Dunque non quello del Pdl,che digerisce tutto, anche il fard. Ottimo, come sempre, il Pd che è riuscito a dividersi anche su Gheddafi, grazie all’encomiabile apporto di Mohammed Al Dalemah e del fido Alì Lah Torr, che hanno invitato il colonnello a concionare in Fondazione Italianieuropei. Ribattezzata per l’occasione Beduinieuropei.

giovedì 11 giugno 2009

non ne avremo mai abbastanza

Notizia di oggi è che quattro parlamentari sono indagati dalla Procura di Palermo nell'ambito dell'inchiesta sul “tesoro” di Vito Ciancimino. Coinvolti sono i parlamentari dell'UDC Salvatore VasaVasa Cuffaro, Salvatore Cintole, Saverio Romano e il parlamentare del PDL Carlo Vizzini. Dimenticavo, Vizzini è membro della commissione parlamentare antimafia, per completezza dell'informazione. I reati contestati sono concorso in corruzione aggravata dal favoreggiamento di Cosa nostra. Tutta questa inchiesta scaturirebbe dalle lunghe dichiarazioni del figlio di Ciancimino ai magistrati palermitani Ingroia e Di Matteo. Questa è la notizia. Cosa aggiungere? Ritengo superfluo evidenziare il ruolo importante che tali parlamentari hanno ricoperto e ricoprono. Ex governatore della Sicilia il pirotecnico Totò, coordinatore dell'UDC siciliano Romano e addirittura membro della commissione parlamentare antimafia l'ex ministro della prima repubblica Vizzini, che nelle ultime legislature si è rilanciato alla grande, nonostante Mani pulite...eppure queste persone, che sono sempre innocenti fino a condanna definitiva, non sono lì per discendenza reale o per volere divino, sono nostri legislatori perché sono stati eletti dal popolo, con numero di voti talvolta stratosferico. Sono lì a occuparsi di come combattere la Mafia perché siciliani come noi, nonostante tutto, li hanno eletti e continuano a eleggerli. Io credo che finché sarà solo la magistratura a porre un argine a simili uomini politici, sarà una sconfitta politico-culturale per la nostra terra. Più culturale che politica, anzi ancor più sociale. Non bastano le motivazioni del bisogno, del ricatto, dello scambio. Ci vuole “stomaco” a votare i Cuffaro, i Mannino, e aggiungerei per restare in ambito europeo i Mastella, i De Mita. Ci vuole stomaco o memoria corta. O forse solo colpevole disinteresse. Un po' come accorgersi solo stamani che è legge in Italia la riforma sulle intercettazioni. Nemmeno Andreotti e Lima hanno osato tanto. E la mafia ringrazia. In silenzio.

lunedì 8 giugno 2009

l'Europa vista dalla soffitta

Alcune considerazioni sul voto delle elezioni europee, al di là dei numeri e visti dal basso verso l’alto..
Da destra: inizia il dopo Berlusconi, non tanto per il mancato sfondamento del 40% sbandierato dal premier con la solita eleganza politica, ma per il fermento che ruota intorno a lui. Il governo continuerà a spostare il suo asse politico sempre più a Nord sia per la crescita della Lega sia per la mancanza di un partito governativo che faccia una seria proposta sul mezzogiorno che non sia demagogica o clientelare. Lombardo, il vero democlientelare, nonostante l’alleanza con quel simpatico e moderno statista di Storace, ottiene un pessimo risultato forse perché per le europee non bastano le buste della spesa. Si rifarà alla prossima tornata elettorale siciliana.
L’UDC cresce ma ha un progetto destinato a galleggiare e spesso è impresentabile visto cosa imbarca e presenta. Dietro il volto rassicurante per la signora tuttacasaechiesa e il professionista che vuole essere rassicurato, nasconde il peggio della politica italiana, da Cuffaro a Gianni e persino al saltimbanco Sgarbi. Fiato corto in attesa della prossima inchiesta giudiziaria.
Da sinistra: incredibile ma il 6,4% dei comunistelli non porterà neanche un deputato in Europa perché quei geni dei dirigenti, ognuno con motivazioni diverse e incomprensibili, hanno deciso di presentarsi divisi, senza parole. Unica differenza è che i rifondisti di Kinder Ferrero sembrano avere un progetto politico con la data di scadenza mentre Sinistra e libertà dovrebbe essere un progetto per il futuro, sempre che personalismi e arroccamenti non facciano naufragare anche questo progetto di rinascita della sinistra. Di Pietro e il suo partito sembrano veleggiare in un mare di consensi crescenti. Sarà ma legalità e qualunquismo non possono da soli portare consensi infiniti. Credo che dipenda dalla debolezza altrui a fare opposizione seria e dall’incapacità della sinistra a riprendere un vero percorso sociale, fatto di una nuova socialità e non sempre sospesa nel binomio fra padroni e operai, ricchi e poveri figli di una vetusta lotta di classe che non tiene conto delle dinamiche sociali e culturali degli ultimi decenni. Bravo il furbo Di Pietro ma credo che questo sia il suo massimo storico. Pannella e dintorni restano sempre col loro 2%, uno scoglio sicuro e costante da decenni a questa parte, nonostante l’ottima europeista Bonino, ma gli elettori sono spesso più attenti alle donne quando sono veline.
Chiudo col PD e col suo striminzito 25% che poteva anche essere inferiore. Sembra una zattera più che una corazzata che dovrebbe opporsi a Berlusconi e Lega. Ma c’è una nota positiva che finalmente i dirigenti hanno compreso che per fare politica bisogna affidarsi a chi la politica la sa fare cioè a un ex dc molto combattivo e pronto a fare davvero opposizione. Dalla soffitta un consiglio: cominciare a tessere una lunga tela di confronti per organizzare un’alleanza seria a sinistra altrimenti torneremo a essere opposizione per i prossimi 50 anni.
Ultima considerazione per gli elettori siciliani. Abbiamo mandato a casa Fava, uno dei migliori deputati della scorsa legislatura al parlamento europeo e rischiato di eleggere il mortadellaro Nino Strano. E la mia città sembra non essersene accorta, almeno dalla soffitta, almeno per oggi.

sabato 6 giugno 2009

la peggiore Italia

Il titolo me l’ha suggerito Indro Montanelli, che raccontava l’epoca del primo berlusconismo, quello del 2001, paragonato dal nostro grande giornalista come peggiore dello stesso fascismo. E Montanelli non ha avuto modo di vedere l’Italia di oggi.
Vorrei riportare stralci dell’ultimo libro del prof. Sartori, che delineano in maniera netta e raggelante il sistema di governo che si è instaurato in Italia. Nessun commento, bastano le parole del politologo.
Dopo le elezioni idilliache volute e pesantemente perdute da Veltroni, l’idillio è presto finito e la sinistra torna ad accusare Berlusconi di intenzioni dittatoriali e anche di essere già un dittatore in pectore. Ma «dittatura» non deve essere usato a vanvera. Per lungo tempo il termine è stato inteso nel suo antico significato romano, un significato del quale ci dobbiamo dimenticare. Perché oggi «dittatura» denota una fattispecie che si è affermata tra le due guerre mondiali, che in quegli anni ha largamente travolto le democrazie parlamentari, che a sua volta è stata travolta dalla sconfitta bellica del nazi-fascismo e che purtuttavia resta viva e vegeta, sotto mentite spoglie, in giro per il mondo.
Visto che molti non lo sanno, importa ricordare che le democrazie dell’Ottocento sono già cadute una prima volta. Agli inizi degli anni Venti il regime sovietico era già dittatoriale e tutti gli Stati comunisti sono stati tali finché sono durati. Il camuffamento fu solo di dichiararli «dittature del proletariato »; dizione che Marx usò di rado e a casaccio, per poi essere reclamizzata dal marxismo-leninismo. Ma era, ed è, una nozione assurda. Una dittatura collettiva di una intera classe, o anche di un demos nel suo insieme, non ha alcun senso. E se qualcuno ricorda, a questo proposito, che i costituenti americani, e poi Tocqueville e John Stuart Mill, usarono la dizione «dittatura della maggioranza», quel qualcuno ricorda male: quei signori non dissero mai dittatura ma tirannide, «tirannide della maggioranza».
La precisazione è, allora, che le dittature degli anni ’20-40 si gloriavano di essere tali. Abbattevano, a loro dire, una democrazia spregevole, una plutocrazia corrotta e un governo imbelle, incapace di assicurare l’ordine e di contrastare il caos rivoluzionario dei «rossi». In quegli anni l’Inghilterra resse e anche la Francia; ma Italia, Germania, Spagna, Portogallo e quasi tutta l’Europa dell’Est (salvo la Cecoslovacchia) passarono sotto il tallone di dittatori o di monarchi-dittatori. Il punto è che in quegli anni le dittature si consideravano regimi legittimi che «superavano » le democrazie. Oggi le nostre democrazie sono di nuovo in perdita di credibilità. Ma reggono anche perché il principio indiscusso di legittimità del nostro tempo è (teocrazie a parte) che il potere viene dal basso, che si deve fondare sul consenso e sulla libera espressione della volontà popolare. Il che rende le dittature regimi «cattivi», regimi illegittimi.
E questa è la grossa differenza che al giorno d’oggi non consente più alle dittature di esibirsi come tali e di presentarsi come superamenti delle democrazie. Oggi le dittature sono endemiche in Africa e abbondano in gran parte del mondo. Ma sono dittature camuffate, che smentiscono di essere tali e fingono di essere democrazie o quantomeno regimi in corso di democratizzazione. Questa è una importante differenza rispetto alle dittature fasciste, naziste e comuniste di settanta anni fa. E anche una differenza che ci impone più che mai di stabilire cosa sia una dittatura anche se e quando si camuffa. In prima approssimazione la dittatura è potere concentrato in una sola persona. Per così dire, la dittatura è del dittatore, un signore (anche donna, s’intende) legibus solutus che non è sottoposto a leggi e che usa le leggi per sottoporre i sudditi al suo volere. Al che viene opposto che sono anche esistite «dittature collegiali» e cioè gestite da una piccolissima oligarchia. Sì, tale è stata dopo la morte di Stalin la formula adottata nell’Unione Sovietica.
Ma fu soprattutto una formula salva vita (che non salvò la vita di Beria, ma che consentì a tutti gli altri membri del politburo moscovita di morire nel proprio letto). Comunque sia, la dittatura collegiale, che oggi vige soprattutto in Cina, resta una anomalia di alcuni regimi comunisti. Una anomalia spesso più apparente che reale e che comunque non basta a inficiare la caratterizzazione «personalistica» delle dittature. Che passo a definire così: un regime di potere assoluto e concentrato in una sola persona, nel quale il diritto è sottomesso alla forza. La sostanza delle dittature è e resta questa. Ma la strategia della loro creazione è cambiata. Prima il dittatore abrogava senza infingimenti la Costituzione preesistente. Senza arrivare al caso limite di Hitler che dichiarava «la Costituzione sono io», il dittatore del secolo scorso eliminava platealmente le camere elettive e istituiva scopertamente strutture di comando a suo uso e consumo. Oggi, invece, il dittatore si infiltra gradualmente e senza troppo parere nelle istituzioni democratiche preesistenti e le svuota dall’interno. Una prima incarnazione di questa strategia furono le «democrazie popolari» inventate nel secondo dopoguerra dal Cremlino per i Paesi dell’Europa dell’Est restati nella zona di influenza sovietica.
Ma in quel caso il camuffamento fu soltanto nella denominazione, nel nome. L’accettazione, nella cosiddetta democrazia popolare, di partitini satelliti era soltanto una cortina fumogena dietro la quale il bastone di comando restava interamente in mano del partito comunista di ogni Paese. Ma oggi la strategia di conquista dittatoriale delle democrazie è graduale e molto più raffinata. È una strategia che sviluppa «Costituzioni incostituzionali » e cioè che ne elimina senza dare nell’occhio le strutture garantistiche. Il costituzionalismo è tale nella misura in cui istituisce poteri controbilancianti che si limitano e controllano a vicenda. Quando è così i cittadini sono garantiti dall’abuso di potere e sono comunque in condizione di difendere e di affermare la loro libertà. Quando non è più così, le Costituzioni diventano semplicemente qualsiasi forma, qualsiasi struttura, che ogni Stato si dà. Con tanti saluti, in tal caso, alle libertà del cittadino. Riassumo così: oggi le dittature sono Stati caratterizzati, dicevo, da Costituzioni incostituzionali, Stati la cui forma (Costituzione) consente e autorizza un esercizio concentrato e incontrollato del potere politico.
Nessuno si dichiara più dittatore. Tutti fanno finta di non esserlo. Ma lo sono. Arrivo a Silvio Berlusconi. È un dittatore? No: non viola la Costituzione. Lo può diventare? Sì, le riforme costituzionali che caldeggia sono tutte intese a depotenziare e fagocitare i contropoteri che lo intralciano. Ma vuole davvero diventare un dittatore? Qui dobbiamo rispondere a naso, a fiuto. A mio fiuto, a Berlusconi interessa semplicemente fare quello che vuole. Si ritiene bravissimo ed è a questo titolo che pretende a mano libera, che mal sopporta chi lo frena. Però è vero che la sua megalomania sta crescendo, che esibisce un complesso di persecuzione addirittura nei confronti dei media (tutta la televisione che gli spara contro! Figurarsi). Il che depone male. Eppure a tutt’oggi il personaggio resta, a mio vedere, soprattutto quello di un padrone autoritario. Congetture a parte, nei suoi due precedenti periodi di governo Berlusconi si è impegnato a salvare se stesso dalla magistratura e a corazzare un impero tutto intriso di conflitti e di abusi di interesse.
Questa volta su questo fronte è oramai tranquillo. E si è così dato a costruire, all’interno di Palazzo Chigi, e della sua personale sfera di potere, un sultanato. Mi sono divertito a battezzarlo così perché il termine (islamico) è evocativo, insieme, di fasto e di potere dispotico. Il fatto è che Berlusconi concede a Bossi quel che Bossi vuole (federalismo e due ministeri chiave) e concede qualche contentino anche a Fini (promosso a presidente della Camera per meglio rimuoverlo da An). Dopodiché il Cavaliere sultaneggia su un partito cartaceo davvero prostrato ai suoi piedi. Nomina ministri e ministre chi vuole. Caccia chi vuole, come se fosse personale di servizio. Nessuno fiata. I ministri del partito di sua proprietà sono tali per grazia ricevuta. E tornano a casa senza nemmeno un gemito se così decide il padrone. Non manca, nel suo governo, nemmeno un gradevole harem di belle donne. Il sultanato era un po’ così.