mercoledì 23 settembre 2009

primo giorno

Esiste un fenomeno sempre crescente in questa italietta del malaffare e dell’illecito arricchimento costruito sullo sfruttamento del lavoro dei più deboli, dei meno tutelati che iniziano a divenire invisibili. Questo fenomeno consiste negli incidenti sul lavoro, solitamente mortali, che accadono diabolicamente il primo giorno di lavoro. E tutto scorre nell’ipocrisia generale. Chi crede davvero che questi operai, manovali, carpentieri subiscono un incidente proprio il primo giorno di lavoro? Queste morti sporche di lavoro nero sono un fotogramma fedele di una nazione che punta dritto a un ritorno a una società da prima rivoluzione industriale, in cui le tutele sul lavoro e sulla dignità del lavoratore vengono calpestate a vantaggio del profitto e dell’illegalità. La politica vara scudi fiscali e condoni e gli imprenditori costruiscono il loro sistema di evasioni quotidiane. Una lista di morti e di invalidi che lastrica la strada verso yacht e ville in Sardegna. Riusciremo ad assistere all’ultimo giorno di questi infiniti primi giorni di lavoro? In un’altra Italia.

lunedì 21 settembre 2009

emigrazione senza fine

In questi giorni di lutto e di tanta insopportabile retorica, dopo tante parole inutili, mi sono imbattuto in una riflessione profonda e obliqua di Roberto Saviano che ci riconsegna il vero volto di una nazione, che non ha mai risolto o voluto risolvere la questione meridionale. Uomini e volti che sono intorno a noi e che in giornate come queste, forse, sono dentro noi da sempre. Ieri con le valigie di cartone, oggi con le stellette.

Vengo da una terra di reduci e combattenti. E l’ennesima strage di soldati non l’accolgo con la sorpresa di chi, davanti a una notizia particolarmente dolorosa e grave, torna a includere una terra lontana come l’Afghanistan nella propria geografia mentale. Per me quel territorio ha sempre fatto parte della mia geografia, geografia di luoghi dove non c’è pace. Gli italiani partiti per laggiù e quelli che restano in Sicilia, in Calabria o in Campania per me fanno in qualche modo parte di una mappa unica, diversa da quella che abbraccia pure Firenze, Torino o Bolzano.
Dei ventun soldati italiani caduti in Afghanistan la parte maggiore sono meridionali. Meridionali arruolati nelle loro regioni d’origine, o trasferiti altrove o persino figli di meridionali emigrati. A chi in questi anni dal Nord Italia blaterava sul Sud come di un’appendice necrotizzata di cui liberarsi, oggi, nel silenzio che cade sulle città d’origine di questi uomini dilaniati dai Taliban, troverà quella risposta pesantissima che nessuna invocazione del valore nazionale è stato in grado di dargli. Oggi siamo dinanzi all’ennesimo tributo di sangue che le regioni meridionali, le regioni più povere d’Italia, versano all’intero paese.
Indipendentemente da dove abitiamo, indipendente da come la pensiamo sulle missioni e sulla guerra, nel momento della tragedia non possiamo non considerare l’origine di questi soldati, la loro storia, porci la domanda perché a morire sono sempre o quasi sempre soldati del Sud. L’esercito oggi è fatto in gran parte da questi ragazzi, ragazzi giovani, giovanissimi in molti casi. Anche stavolta è così. Non può che essere così. E a sgoccioli, coi loro nomi diramati dal ministro della Difesa ne arriva la conferma ufficiale. Antonio Fortunato, trentacinque anni, tenente, nato a Lagonegro in Basilicata. Roberto Valente, trentasette anni, sergente maggiore, di Napoli. Davide Ricchiuto, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato a Glarus in Svizzera, ma residente a Tiggiano, in provincia di Lecce. Giandomenico Pistonami, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato ad Orvieto, ma residente a Lubriano in provincia di Viterbo. Massimiliano Randino, trentadue anni, caporalmaggiore, di Pagani, provincia di Salerno. Matteo Mureddu, ventisei anni, caporalmaggiore, di Solarussa, un paesino in provincia di Oristano, figlio di un allevatore di pecore. Due giorni fa Roberto Valente stava ancora a casa sua vicino allo stadio San Paolo, a Piedigrotta, a godersi le ultime ore di licenza con sua moglie e il suo bambino, come pure Massimiliano Radino, sposato da cinque anni, non ancora padre.
Erano appena sbarcati a Kabul, appena saliti sulle auto blindate, quei grossi gipponi “Lince” che hanno fama di essere fra i più sicuri e resistenti, però non reggono alla combinazione di chi dispone di tanto danaro per imbottire un’auto di 150 chili di tritolo e di tanti uomini disposti a farsi esplodere. Andando addosso a un convoglio, aprendo un cratere lunare profondo un metro nella strada, sventrando case, macchine, accartocciando biciclette, uccidendo quindici civili afgani, ferendone un numero non ancora precisato di altri, una sessantina almeno, bambini e donne inclusi.
E dilaniando, bruciando vivi, cuocendo nel loro involucro di metallo inutilmente rafforzato i nostri sei paracadutisti, due dei quali appena arrivati. Partiti dalla mia terra, sbarcati, sventrati sulla strada dell’aeroporto di Kabul, all’altezza di una rotonda intitolata alla memoria del comandante Ahmad Shah Massoud, il leone del Panjshir, il grande nemico dell’ultimo esercito che provò ad occupare quell’impervia terra di montagne, sopravvissuto alla guerra sovietica, ma assassinato dai Taliban. Niente può dirla meglio, la strana geografia dei territori di guerra in cui oggi ci siamo svegliati tutti per la deflagrazione di un’autobomba più potente delle altre, ma che giorno dopo giorno, quando non ce ne accorgiamo, continua a disegnare i suoi confini incerti, mobili, slabbrati. Non è solo la scia di sangue che unisce la mia terra a un luogo che dalle mie parti si sente nominare storpiato in Affanìstan, Afgrànistan, Afgà. È anche altro. Quell’altro che era arrivato prima che dai paesini della Campania partissero i soldati: l’afgano, l’hashish migliore in assoluto che qui passava in lingotti e riempiva i garage ed è stato per anni il vero richiamo che attirava chiunque nelle piazze di spaccio locali. L’hashish e prima ancora l’eroina e oggi di nuovo l’eroina afgana. Quella che permette ai Taliban di abbondare con l’esplosivo da lanciare contro ai nostri soldati coi loro detonatori umani.
È anche questo che rende simili queste terre, che fa sembrare l’Afghanistan una provincia dell’Italia meridionale. Qui come là i signori della guerra sono forti perché sono signori di altro, delle cose, della droga.
Roberto Saviano, da Repubblica del 18/09/2009

domenica 13 settembre 2009

voglia di estremismo

Correre al centro, anche contromano. Sono anni che la spinta da sinistra si è arrestata per dare spazio e voce solo a linee moderate, filo clericali e poco moderne. È nato un conservatorismo di sinistra che ha tentato di intercettare voti e consensi di quei milioni di elettori senza ideologie o meglio con in testa il bisogno di vivere in un paese in cui sicurezza e denaro contano più di etica e progresso. E quando qualcuno ha detto qualcosa di “sinistra” è stato tacitato. Anni in cui la sinistra ha smesso di fare la sinistra e ha cominciato il rapido tracollo di consensi e di credibilità politica. E l'Italia con il vento del moderatismo è sprofondata nel vuoto assoluto, in un ristagno senza precedenti storici e senza alcun progetto per il futuro. Si sta costruendo un paese senza una vera scuola pubblica, privo di cultura, e le prossime generazioni avranno una vita sempre più precaria e incerta, con meno protezione statale e nel tempo anche familiare. Questo sarebbe il tempo di ritorno alla lotta, al radicalismo, a idee estreme che consentano di riprendere e riallacciare percorsi di crescita sociale e ricostruire il paese come dopo una guerra. Perché questo è un paese che è sotto un costante bombardamento sottoculturale e con derive razziste e lontano dalla linea di una grande democrazia europea. Questo dovrebbe essere il tempo in cui un leader progressista spinga la propria direzione politica verso posizione nette ed estreme, verso alleanze che portino idee innovative e non verso rendite di posizione. Una rivoluzione sociale e culturale che possa intercettare la voglia di un cambiamento profondo non solo sul piano politico-economico ma per la difesa di diritti che sembravano acquisiti e che invece vengono quotidianamente messi in discussione e costantemente depotenziati e svuotati. Una sinistra che si ricollochi a sinistra per evitare che scompaia del tutto e che si possa presto passare dalle protesta democratiche agli scontri di piazza. E forse questo sarebbe persino il male minore di una decadenza simile. Fare i moderati e copiarne metodi e posizioni è stato un suicidio, perché non ha creato una vera opposizione a questa deriva e non ha portato neanche un voto a sinistra, d'altronde chi voterebbe la copia se può votare uno smagliante originale?
Tempo di scelte: tempo di rivoluzione o tempo scaduto?

sabato 5 settembre 2009

scaglio la prima pietra

Da mesi il cattivo governo e la crisi economica hanno messo in ginocchio milioni di italiani, milioni di persone, che giorno dopo giorno perdono potere d’acquisto, dignità e pezzi dei propri sogni e desideri. Porte che si chiudono, speranze che si frantumano e una classe dirigente che blatera e che non rappresenta più questo nuovo immenso paese dentro il paese.
Giovani che non riescono a trovare un primo lavoro, sfruttati e forzatamente felici di riuscire a guadagnare elemosine senza alcuna tutela né contratto. Precari per la vita.
La scuola pubblica umiliata, con decine di migliaia di assurdi tagli al personale, risparmi sulla qualità dell’offerta formativa, docenti trattati da pedine da spostare di sede in sede, dimenticando continuità didattica, disagi e costi da sostenere per una mobilità mai richiesta. Nessun investimento in stipendi, in strutture scolastiche, in formazione. Nulla. Nessun investimento sulle nuove generazioni e sulla crescita del nostro paese.
E che dire degli operai, dagli insicuri cantieri edili dove spesso si lucra sul lavoro nero e sulle morti da cancellare in fretta e da ignorare, agli invisibili che perdono il lavoro in ogni settore per l’incapacità di manager plurimilionari e che scaricano i propri insuccessi sulle spalle dei lavoratori.
Banche che non sono più al servizio di idee imprenditoriali o a sostegno dei risparmiatori e dei piccoli investitori, ma che preferiscono prestare fiumi infiniti di denaro, spesso senza ritorno, alle solite industrie sostenute dalla mala politica e da una finanza che ingrassa solo se stessa con speculazioni sempre più vergognose.
Questo quadro, mancante peraltro di innumerevoli altri importanti tasselli, sembrerebbe porre le premesse per una imminente rivoluzione sociale, invece tutto tace, con pochi attutiti colpi di tosse. I media raccontano confondendo i fatti, disorientando più che informando. E gli egoismi di categoria fanno il resto, sotto gli sbadigli dei sindacati sempre più sulla difensiva e mai al contrattacco.
In una situazione storica come questa servirebbe un unico blocco sociale, una rivoluzione autentica che possa saldare interessi diversi nella forma ma simili nel contenuto.
Si gioca non solo il nostro futuro, ma quello dei nostri figli e nipoti, si gioca una partita decisiva fra un nuovo progresso sociale, etico ed economico su cui edificare un nuovo paese, differente dal moribondo di adesso che poggia su basi fradice e che si sorregge su cariatidi impresentabili e incapaci di risolvere le esigenze e le istanze dei nostri giorni.
Senza la dignità del lavoro, senza una scuola competitiva e priva di risorse umane ed economiche, senza leggi laiche che garantiscano i diritti di tutti i cittadini, senza il rispetto degli “ultimi”, siano essi migranti, omosessuali, poveri, non ci potrà mai essere uno stato democratico e moderno al passo con le nazioni più progredite e competitive.
Un blocco unico in cui ritrovare i visi dei ragazzi sfruttati dei call center e degli operai pericolanti arrampicati sulle impalcature, dalle maestre senza alunni agli alunni senza sogni, dai pensionati col frigo vuoto alle casalinghe senza spesa, e così via a riempire le strade, e a colorare queste spente città dove è più facile incontrare la rassegnazione che la speranza. Tutti sotto un unico striscione, senza sigle di categoria, per un’unica categoria, quella umana. Altrimenti pioveranno pietre, sempre più dure.

mercoledì 2 settembre 2009

eticamente corretto

un minuto di riflessione sul Che e sull'uomo di Eduardo Galeano