sabato 19 maggio 2012

prima pagina

La strage di Brindisi, straziante, fa ritornare la scuola il centro nevralgico delle notizie dei media. Triste pensarlo ma si parla della scuola, dei ragazzi e di tutto il mondo che gira intorno solo in casi così estremi. O in pochi altri casi, bizzari. Poi il silenzio e la scure dei tagli. Una società che dimentica colpevolmente la scuola è una società destina a morire, civilmente. Spesso, le scuole rappresentano l'ultimo avamposto educativo e di contrapposizione alle mafie, al malaffare, alla malapolitica. Bufalino amava dire che per combattere la mafia occorrevano più maestri che esercito, ma i nostri ministri ritengono che la scuola sia solo un luogo in cui operare economie, non il luogo principe della formazione di idee e culture.
Colpire la scuola e i suoi studenti è un atto vile, ma emarginare le scuole particolarmente quelle periferiche è un atto infame e di collusione mafiosa. Vedrete qualche giorno ancora e poi la scuola ritornerà a occupare le pagine di economia e di cronaca locale, mostrandone spesso le deformazioni.
Ogni tanto le bombe risvegliano le coscienze, fu così per quelle di Capaci e di via D'Amelio. O distolgono l'attenzione. Dobbiamo comprendere quale sarà oggi la nostra strada. E la nostra storia. 

sabato 17 marzo 2012

frettolosamente

Pubblichiamo un articolo comparso stamani su Repubblica di Michele Serra, una riflessione sui nuovi mezzi di comunicazione di massa e su Twitter in particolare. Per ritornare a ragionare, senza fretta...

L'altro giorno ho scritto un corsivo contro il sensazionalismo urlato della stampa italiana. Pochi commenti, quasi tutti favorevoli. Il giorno successivo (ieri) ho scritto un corsivo contro il cicaleccio sincopato di Twitter. Moltissimi commenti, quasi tutti ostili. Prima di replicare alle critiche, è interessante rilevare questo: attaccare il linguaggio dei giornali equivale, oggi, a sfondare una porta aperta. Non provoca reazioni corporative, nonostante quella dei giornalisti sia certamente una corporazione, forse perfino una casta. Al contrario, esprimere dubbi su Twitter suscita una reazione veemente e compatta dei suoi utenti. Soprattutto su Twitter, ovviamente.
Come se in discussione non fosse un medium, ma una comunità di persone. La sua identità collettiva. Circostanza che solleva dubbi su uno dei principali argomenti dei difensori di Twitter: è solo un medium, non conta in sé, conta l'uso che se ne fa. Anche la carta stampata è solo un medium: infatti parlarne male è esercizio corrente, e condiviso perfino da chi di quel medium fa un uso quotidiano e addirittura professionale. Il cosiddetto "popolo del web" ha invece di sé un alto concetto. Se mi posso permettere: leggermente troppo alto. Quasi snob, mi verrebbe da dire per vendicarmi dell'accusa che spesso viene rivolta a chi critica le abitudini di massa...
In realtà entrambe le mie "Amache" - quella contro i giornali, quella contro Twitter - trattavano lo stesso tema: l'uso frettoloso
e impulsivo della parola. La prevalenza dell'emotività sul ragionamento. Nel caso di Twitter sostenevo che fosse la formula di quel medium (brevità più velocità) a scoraggiare un pensiero più strutturato e più adulto. Ovviamente, solo un luddista o uno stupido può negare l'enorme funzione che Twitter, e più in generale internet, esercita sulla vita sociale del pianeta Terra: l'esempio classico è il ruolo che queste forme di comunicazione veloce, pervasiva e soprattutto difficilmente censurabile hanno avuto nei movimenti di democrazia nei paesi arabi e in Iran. Il mio rilievo, che provo a riformulare, è però tutt'altro. E' che quei medium hanno sì una formidabile funzione di servizio, di messa a fuoco di argomenti omessi o rimossi sui media "ufficiali". Ma contengono anche una tentazione esiziale, che è quella del giudizio sommario, della fesseria eletta a sentenza apodittica, del pulpito facile da occupare con zero fatica e spesso zero autorevolezza.
La parola - e questa è ovviamente solo una mia opinione - non deve rispondere solo all'ossessione di comunicare (la comunicazione sta diventando il feticcio della nostra epoca). La parola dovrebbe servire ad aggiungere qualcosa, a migliorare il già detto. Alla comunicazione bastano gli slogan. Alla cultura serve il ragionamento. Non per caso la conclusione del mio corsivo era questa: "se usassi Twitter, direi che Twitter mi fa schifo. Fortunatamente non twitto". Traduzione per i parecchi che non hanno capito, e difatti hanno scritto "a Serra fa schifo Twitter": ci sono cose, per esempio il mio giudizio su Twitter, che non possono essere dette su Twitter. Perché ci sono cose che sono complesse e addirittura complicate, e dunque irriducibili alle pochissime parole che Twitter concede.
I miei critici (tra i tanti ringrazio, per l'intelligenza dei rilievi che mi muovono, Luca Sofri e i blogger Fabio Chiusi e Davide Bennato) negano che il medium sia il messaggio, fanno notare che la tecnologia non determina alcunché, ma suggerisce occasioni e apre possibilità e mi accusano di passatismo. Accetto le critiche: è vero che gli anni passano per tutti, anche per me, ed è fortemente possibile che io esasperi i difetti di Twitter (superficialità, ansia di visibilità) e ne sottovaluti i vantaggi (sintesi, velocità, accessibilità, simultaneità del dibattito). Le accetto, le critiche. Ma in cambio mi piacerebbe molto che questa breve lite mediatica servisse anche a chi twitta. Servisse a capire che il rispetto delle parole, anche sui nuovi media, è almeno altrettanto importante dell'urgenza-obbligo-smania di "comunicare". Per comunicare basta scrivere "io esisto". Per scrivere, spesso è necessario dimenticarlo.

domenica 12 febbraio 2012

mediocrisia

C'è una crisi nel nostro Paese più persistente di quella economica, una crisi trasversale che ha compresso il pensiero e le speranze. La crisi della cultura, delle opinioni e della possibilità di un reale cambiamento della società. Ci sono voluti decenni, credo che tutto sia partito in sordina dalla fine degli anni '70, ma la scuola di massa e i tagli esponenziali operati, l'università dei quiz e con gli esami a numero di pagine ingerite, la scomparsa della classe intellettuale vera e la televisione divenuto unico oggetto informativo delle famiglie ha spento ad ogni livello la capacità del dissenso, di avere idee libere e non veicolate. Come diceva Gaber parlando del conformista "pensa solo per sentito dire", un'acuta affermazione che dilaga sempre in maniera crescente. Si straparla su tutto e tutti, nella mediocrità non certamente aurea, diventano esperti di ogni settore, dall'economia alla finanza, dalla criminologia al diritto, passando con la stessa superficialità come se si dovesse parlare della formazione di calcio per la prossima partita. Le chicchiere da bar innalzate a opinioni, le quattro pagine lette a tuttologia. Un'ignoranza strisciante ormai ben celata che fa del nostro paese (anche se purtroppo credo che non riguardi solo l'Italia) una terra di incultura stratificata che mostra gravi ripercussioni e derive che vanno verso l'antipolitica qualunquistica e il razzismo sociale. Questo è l'humus ideale del fascismo magari non quello del ventennio ma in queste forme di controllo dei popoli da parte di tecnocrati, banche con la complicità della politica ormai sradicata dalla società ma forte del consenso non ideologico ma opportunistico. Basta fare due passi in uno dei centri commerciali delle nostre città, magari il sabato pomeriggio, per comprendere appieno come queste trasformazioni sembrano ormai aver sconquassato la società in maniera irreversibile. Si mangia come in una mensa aziendale, i libri vicino al reparto frutta e ore passate a guardare inebetiti tavolette digitali o a sfiorare cellulari. Nemmeno Pasolini avrebbe immaginato una simile apocalisse antropologica. Eppure questa è la nuova classe sociale, la mediocrisia, immensa, incastrata tra i poveri delle periferie metropolitane e gli arciricchi sempre in plancia di comando.

domenica 29 gennaio 2012

non ci sto

Se ne è andato il presidente Scalfaro, un uomo d'altri tempi, non solo per ragioni anagrafiche. Presidente della Repubblica in un periodo buio per il nostro paese, dalle stragi di mafia a Berlusconi. Un uomo che parlava in maniera forbita, con un linguaggio asciutto che sapeva di democristiano ma di un democristiano perbene, di quelli che hanno ricostruito l'Italia repubblicana dalle fondamenta. La parte rispettabile del partito degli Andreotti, Forlani, Lima.
L'ultimo ricordo che ho di questo uomo politico è la sua discesa in campo in difesa della costituzione dagli odiosi attacchi del berlusconismo. Già novantenne, in piazze gremite, con la sua elegante sciarpa e nello sguardo l'orgoglio di sentirsi dalla parte giusta. Dalla parte degli italiani, perbene.

giovedì 19 gennaio 2012

inforconati

Non mi è mai piaciuto quando un movimento di parte decide, per convenienza, di parlare a nome di tutti. Mai. Sentire che il blocco selvaggio dei tir per mano del movimento dei forconi è nato e opera per il bene del popolo siciliano, mi fa sentire fuori posto. Ma per conto di quale popolo parlano? A me sembrano gli stessi  che hanno sostenuto e sono stati difesi dalle classe politica regionale degli ultimi venti anni. Un misto di nostalgico autonomismo, qualunquismo e populismo. Io non mi sento rappresentato da questo movimento di cui non condivido il metodo di lotta e l'analisi politico-economica che portano avanti. In questa confusione, in questa vacanza della politica, in questa crisi permanente economica e sociale, chiunque alzi la voce sembra stare dalla parte giusta. Gli urlatori verso tutto e tutti mi sanno di fascismo, peraltro mai davvero andato via dal nostro paese. Si potrebbe innescare una tragica guerra tra poveri, senza fine. E qualcuno, magari in Padania, già conteggia i futuri guadagni da questo insensato autogol del movimento.

lunedì 9 gennaio 2012

due secoli indietro

La crisi economica globale non ha trovato soluzioni, infinite discordanti diagnosi ma nessuna vera risposta. Gli economisti su una cosa sono concordi: questa è l'occasione giusta per smantellare, pezzo a pezzo, lo stato sociale di ogni paese occidentale.
Una buona scusa che da circa trent'anni hanno atteso con sapiente pazienza finanzieri, speculatori, politici e affaristi e avidi imprenditori. Una controriforma che riporta le lancette del tempo in un'età lontana dalle conquiste sociali, in epoche di sfruttamento del lavoro a totale vantaggio del capitale.
Precarietà e paura di perdere il lavoro sono i nuovi strumenti di ricatto ai danni dei lavoratori.
Da questa crisi ne usciremo, poveri non di soldi ma di diritti.
Gli incontri dei G (8...9....29..) assomigliano sempre più a tanti congressi di Vienna, in cui restaurare un sistema economico dal sapore preindustriale.
Siamo sicuri che ne valga la pena? E' questo il giusto prezzo? Io non credo.
Pochi sembrano convinti che si possa fermare questa valanga che il capitalismo ha provocato. Eppure ancora si è in tempo, ancora per poco. Poi goodbye Welfare State.